ATTILIO ZECCHETTO – VERONA
Attilio Zecchetto, nacque a Isola della Scala, in provincia di Verona, il 23 luglio 1930. Arrivò in Cile nel 1947 e cominciò a lavorare come insegnante di meccanica presso la scuola professionale salesiana. Nel 1961 si sposò con Alicia Brughera con cui ebbe tre figli: Claudia, Silvana e Pierluigi.
Queste poche note ci introducono un signore molto distinto, altrettanto elegante e gentile la moglie. Quando ci accolgono, a casa loro per fare una chiacchierata, gli diciamo che avevamo i minuti contati e Attilio risponde: “Te se vegnu col fogo tel cul!” era già chiaro che l’essere “veneto” non aveva mai abbandonato la famiglia Zecchetto! Inizia a raccontarci da dove viene. “Isola della Scala è in pianura, dove è fiorente la coltivazione del riso. Mio nonno aveva delle risaie e i mulini dove si puliva il riso. Erano circa 120 campi, 40 ettari, producevamo il vialone nano. Mio padre, Giovanni Zecchetto e mia madre Silvia Mattiello ebbero 9 figli, ora purtroppo due non ci sono più.
Dopo la prima guerra mondiale, mio padre andò in un campo di ricognizione, dove c’erano dei relitti di guerra. Prese una dinamo da un’auto e alla ruota che faceva girare il mulino ad acqua attaccò una puleggia ad una cinghia del mulino e così la dinamo funzionò. Chiaramente tutto di nascosto da mio nonno. Fu così che la sera mio padre accese “l’elettrico”. Il nonno però non era contento e disse:“Varda che l’eletrico al copa le galine”.
Quando iniziò la seconda guerra mondiale, io avevo dieci anni. Mio padre si occupava della parte commerciale del riso. Infatti, si esportava circa il 90% della produzione, specialmente nei grandi alberghi di tutta Europa. Per poter continuare con l’attività ci trasferimmo a Verona. Mi ricordo perfettamente che tutto cominciò ad essere razionalizzato e così cambiammo la produzione in frutto secco. Durante il primo bombardamento, la nostra casa di Verona andò distrutta. Noi per fortuna rimanemmo illesi. Mi ricordo perfettamente cosa è accaduto. La mattina, mio padre vide un aereo in cielo che stava facendo una ricognizione e capì che lì non eravamo più sicuri. Così caricò le cose essenziali, così mamma e cinque fratelli partirono per Isola della Scala, mentre mio padre venne a Verona a prendere mio fratello ed io che eravamo a scuola nel collegio dei salesiani. Ci prese ed eravamo nei pressi di Borgo Roma. Tutto ad un tratto cominciarono i bombardamenti. Papà, in fretta e furia, sollevò un tombino dalla strada e si infilò dentro con mio fratello. Io cercai di entrare, ma le gambe rimanevano fuori, non ci stavo. Fui colpito. Per fortuna non gravemente. Finito il bombardamento mio padre andò a controllare lo stato della casa di Verona. Rasa al suolo. Fortunatamente raggiungemmo il resto della famiglia all’Isola della Scala. Ci sistemammo lì. Solo più avanti ritornai al collegio. Nel 1947 finii gli studi e mi diplomai Perito Tecnico Meccanico. Papà fece moltissimi sacrifici per farci studiare. Mio padre rimase molto turbato dalla guerra, anche a causa di mio fratello che fece due anni di prigionia, e ci consigliò di emigrare il più lontano possibile. Fu così che andai a Genova, al Consolato Argentino, mi suggerirono così perché dicevano che con il mio titolo di studio c’era lavoro sicuro in Argentina. Appena uscito dal Consolato Argentino mi trovai davanti il Consolato Cileno e decisi di entrare. Appena entrato parlai con la segretaria, le dissi che ero un meccanico e che volevo emigrare. Mi fece parlare subito con il console. Mi disse che il Cile era un bel paese e che avevo molte possibilità di trovare lavoro. Appena tornato a casa, presi una cartina geografica e facendo un confronto con l’Argentina, vidi che in Cile c’erano più montagne. Mi ricordai che da piccolo andavo a prendere l’uva sulle Torricelle e decisi per il Cile. Poi andai al collegio dei Salesiani, che avevo frequentato e chiesi loro se c’erano dei Salesiani in Cile e mi prepararono una lettera per i Salesiani in Cile. Partii nel ‘47, con la nave Tucuman. Eravamo quasi un migliaio, stipati in quella nave, ma io ero l’unico che emigravo in Cile. All’inizio quando mi accorsi che parlando con gli altri passeggeri, nessuno andava in Cile, mi scoraggiai un po’, ma forse l’incoscienza mi fece resistere. Durante il tragitto mi intrufolavo tra i meccanici perché vedendoli al lavoro misuravo il mio grado di preparazione. Ero soddisfatto. Arrivai a Santiago dopo quasi un mese, i primi di ottobre. Andai al Collegio Salesiano, mostrai la lettera e subito chiamarono un ragazzo, Tarcisio Cantele, perché mi accompagnasse in albergo, dove mi ero sistemato i primi giorni, a prendere la mia roba. I salesiani mi diedero vitto, alloggio e un lavoro come professore di meccanica.
Ci sono rimasto per cinque anni, senza fare neanche una vacanza. Un giorno ci fu una banale discussione relativa ad un punto di vista tecnico e decisi che era ora che conoscessi qualche cosa di diverso. Era arrivato il momento di farmi strada nella vita. Innanzitutto, con i soldi che avevo risparmiato in tutti quegli anni dai Salesiani, feci venire in Cile mamma, papà e cinque fratelli. Affittai una casa a Santiago con cinque camere da letto. Poi mi licenziai. Mentre mi stavo assaporando il mio primo giorno da disoccupato, nei pressi dello Stadio Italiano, conversando con un conoscente italiano gli dissi: “Finalmente, da stamattina sono disoccupato!” Lui mi offrì un lavoro molto vantaggioso e mi assunse subito. Non riuscii a fare neanche due giorni di vacanza. Poi una sera durante una cena a casa di amici conobbi quella meravigliosa donna che sarebbe diventata mia moglie, Alicia Brughera Lantermo, con la quale siamo felicemente sposati da 46 anni.Ma tornando al mio lavoro, dopo un po’ decisi di mettermi in proprio. Mi gettai nella costruzione di lampadine, innanzitutto perché servivano sul mercato e poi quelle che c’erano qui non erano per niente belle. Ad un certo punto mio fratello Luciano ed io costruimmo pezzi di auto per la FIAT. Erano gli anni ’70, ed avevamo 15 operai. Fu così, che vedendomi lavorare, la FIAT mi propose di diventare responsabile del settore Metodi. In poche parole decidevo come fare un pezzo, disegnarlo, le macchine che servivano per produrlo, i tempi e così via. Ma le cose non andarono per il verso giusto. La FIAT, qui in Cile, non fu mai riconosciuta e il Governo di Pinochet la fece chiudere. Aveva allora 580 operai e io ero responsabile di 30, di tutte le età e da un momento all’altro mi dissero di licenziarli. I più anziani con figli a carico erano disperati. Di lì a poco mi venne un infarto e mi misero tre by pass. Nel 1982 decisi di andare in pensione. Mi ricordo un aneddoto. La FIAT mi mandava spesso in missione. Nel 1979 mi mandarono in Italia per vedere il modello della FIAT RITMO. Con il caporeparto, a Torino, entrammo nel reparto Metodi e vidi tre o quattro disegnatori e progettisti che discutevano animatamente su un progetto per via di un reclamo arrivato dalla Turchia perché un attrezzo non funzionava bene. Era un attrezzo ottico per fare l’allineamento delle ruote. Mi ricordai, che quando lo feci io, qui in Cile, mi accorsi immediatamente che c’era un errore di calcolo della lente. Una volta corretto, tutto funzionò perfettamente. Allora, mi avvicinai al progetto e spiegai con tutta calma il banale errore. Il capo reparto andò su tute le furie con i progettisti e alla fine disse: “Devono venire dal Cile per farvi capire le stupidaggini che fate!”
Comunque devo dire che mi sono trovato molto bene qui in Cile, intanto perché ho una famiglia meravigliosa. Però ho sempre molta nostalgia dell’Italia, basta che mi giunga all’orecchio una melodia veneta che non riesco a trattenere le lacrime. Anche se devo dire che andiamo spesso in Italia, ma qui ho tre figli, Claudia, Silvana e Pierluigi e sette nipoti. Quando vado in Italia, mi piace visitare i piccoli paesini, dove si respirano ancora i sentimenti e le emozioni delle persone che ci vivono. Per far capire a chi ne è digiuno cos’è l’amore incondizionato per la patria racconto un episodio che mi è accaduto qui in Cile. Un giorno stavo uscendo dall’Ambasciata Italiana di Santiago, e mi avvicina una signora di circa 60 anni e in italiano mi chiese “Mi scusi è questa l’Ambasciata Italiana?” e io risposi in dialetto: “Si Siora”. Lei tutta commossa cominciò ad appoggiare le mani sul muro e ad accarezzarlo e disse: “Sto toccando un pezzo della mia Italia!”
Tratto dal libro “Destinazione Cile” di Flavia Colle e Aldo Rozzi Marin, pubblicazione promossa dalla Regione del Veneto, Assessorato ai Flussi Migratori e realizzata dall’Associazione Veneti nel Mondo, in partenariato con l’Associazione Veneta del Cile e l’Associazioni Imprenditori Veneti in Cile. (Tipografia Grafica Corma – Grisignano di Zocco, Vicenza. Maggio 2008)