GIOVANNI BALLOTTA – Villadose – ROVIGO
Dorina racconta la vita del marito Giovanni Ballotta Cesaro con il quale ha trascorso momenti indimenticabili. “Incomincerò a raccontare da quando l’ho conosciuto nel 1955, ancora studente. Terminò gli studi nel 1956 e incominciò subito aprendo un’agenzia di assicurazioni ma si occupava anche di prodotti e concimi ad Adria. Ammobiliò l’ufficio con lo stretto necessario. Gli inverni erano freddi in quel periodo non aveva il riscaldamento visto che le entrate erano poche. Mio fratello Toni aiutava come fattorino.
Per il carattere inquieto di Giovanni, il lavoro era troppo “lento”. Nel frattempo si lasciò influenzare dal fratello maggiore, Claudio, che era in Canada e gli diceva spesso che in Italia non sarebbe riuscito a fare ciò che voleva.
Così incominciò a maturare l’idea di cercare lavoro in altri paesi. Pensò alla Rhodesia e all’America Latina. Nel 1956, un amico di suo padre, il signor Scarpari, aveva acquistato una colonia di Italiani presso una grande azienda all’interno della foresta, Saipai a Tingo Maria, in Perù. Scarpari aveva bisogno di una persona giovane, dinamica e un po’ avventuriera. Dato che suo padre conosceva bene le aspirazioni del figlio, glielo disse. Giovanni si entusiasmò e accettò subito di andare in Perù. Era il suo sogno, un’esperienza di lavoro in America Latina. S’imbarcò a Genova con la nave Amerigo Vespucci. Il viaggio durò ventotto giorni, più una settimana per arrivare alla Saipai, nella foresta.
Quando arrivò a destinazione, dalle lettere che ricevevo, capivo che era proprio il suo sogno che diventava realtà. Mi disse che c’era molto da lavorare, ma aveva tutte le intenzioni di far progredire l’azienda e così fu, perché in un anno ci furono notevoli miglioramenti, ma nel frattempo iniziarono anche le invidie. Giovanni cercava di migliorare l’azienda, ma la gente non ne voleva sapere.
Il signor Scarpari fu così contento di lui che dopo un anno lo nominò direttore generale. Parlò anche con il papà e gli disse che suo figlio era la persona che faceva al caso suo. Tutto andava bene, e la sua intenzione era di sposarsi con me, la sua fidanzata. Ma mi fece capire che quello non era un posto per formare una famiglia. Così decise di andare a Lima a cercare lavoro. Lì fu molto difficile trovare lavoro. Nel frattempo, stanchi di attendere, ci eravamo sposati per procura.
A Lima, lavorò come pescatore, poi come proprietario d’imbarcazioni, incominciò a risparmiare e si comprò una lancia peschereccia e incominciò a guadagnare bene. La prima cosa che fece, appena ebbe risparmiato abbastanza, mi mandò i soldi per raggiungerlo a Lima. Affittò un appartamentino ammobiliato e incominciammo la nostra vita matrimoniale; dopo due anni nacque il nostro primo figlio, Marco e dopo un anno e mezzo, Claudio che abbiamo soprannominato Otto.
La pesca incominciava a non rendere più molto bene. Giovanni perdette una lancia, ne aveva tre. Nel frattempo al fratello venne l’idea di lavorare in miniera, perché il pesce iniziava a scarseggiare. Così tutti i nostri risparmi si trasferirono nel sogno della miniera. Ci rimasero solo 10.000 soles per aprire due lavanderie una si chiamava Veneziana. Io lavorai con Gianni nella gestione delle lavanderie. Però non riuscivamo a guadagnare abbastanza da poter pagare l’affitto di una casa, e quindi andammo a vivere in lavanderia. Fu un periodo molto duro, pieno di sacrifici. Giovanni e suo fratello Gastone costruirono un’imbarcazione per il signor Julio Caballero, uno spagnolo, che nutriva molta fiducia nelle capacità dei due fratelli. Vista la buona riuscita della costruzione della prima imbarcazione, ricevettero parecchie ordinazioni. Ne costruirono più di cento. Il lavoro era così tanto che lavoravano anche di domenica ed io passavo con i figli in fabbrica per stare un po’ in compagnia. Guadagnava bene e potemmo comprare una casa comoda e un’auto, così mio marito poteva raggiungere più in fretta il posto di lavoro nel Callao e ritornare più presto a casa. Tutto stava andando per il verso giusto, quando arrivò la corrente del niño e il pesce incominciò a scarseggiare. Giovanni pensò allora di costruire imbarcazioni per la pesca dei tonni, molto più grandi, analizzando la fibra di vetro. Studiò per sei anni, si perfezionò in America perché era il paese in cui usavano di più questa fibra, ma anche in Europa. Pian piano prese corpo il progetto di costruire imbarcazioni per la pesca del tonno. Era l’epoca di Velasco Alvarado, andato al potere con un colpo di stato[1] spodestando il presidente Belaunde Terry. Da questo momento il Paese non godeva più della libertà d’impresa, commerciale e industriale. Il commercio venne fermato, perché le materie dovevano essere importate. L’azienda di Giovanni fu obbligata ad assumere dei cubani e le imposero la SINAMOS con a capo un militare Tantalean Vanini.[2]
Dopo un anno i cubani si ritirano, portandosi con loro i modelli delle imbarcazioni per la pesca del tonno. Assieme al fratello decisero di chiudere la fabbrica. Giovanni non si scoraggiò e fece delle ricerche n America Centrale per studiare il mercato per costruire una fabbrica di farina di pesce e andò da solo a Panama, dove sembrava che il pesce abbondasse. Dopo un anno lo raggiungemmo. Costruì una grande fabbrica che si chiamava Panama Fish Protein a Rio Hato. Venero costruite case per i pescatori e una pista di atterraggio per gli aerei. Giovanni aveva un socio, Torrijos, che viveva nella Chorrera, vicino al Rio Hato. Erano contenti del loro presidente, lavorava per il popolo, costruendo scuole, ospedali, industrie. Quando improvvisamente ebbe un incidente con il suo aereo e Torrijos morì.
Dopo un po’ di tempo che vivevamo a Panama, venne a farci visita il fratello di Giovanni e lo convinse a ritornare in Perù, suggerendogli di aprire una fabbrica lavorando il pesce e la farina di pesce visto che Velasco non c’e più.
Nuovamente tutti i nostri risparmi furono investiti in questo nuovo progetto, fu uno dei momenti più difficili perché i nostri figli frequentavano l’università. Il lavoro aveva alti e bassi, perché è così che funziona nell’industria peschiera. Gianni lavorava incessantemente, era il primo a entrare in fabbrica e l’ultimo ad andarsene. Una mattina mentre stava andando al lavoro vicino al Club Waikiki cadde una grossa pietra dalla montagna e malauguratamente sfondò il vetro dell’auto. Giovanni perse il controllo dell’auto dal tremendo colpo ricevuto alla testa e finì in mare. Era privo di sensi e il mare lo stava inghiottendo, ma per fortuna, un camioncino, con a bordo due giovani videro l’incidente e lo portarono a riva, salvandogli la vita. Lo trasportarono in ospedale. Dall’ospedale mi comunicarono l’accaduto. Il dottor Moscol, che era in servizio, appena arrivata, mi disse che per salvargli la vita bisognava operarlo subito. Così decisi subito, non c’era tempo da perdere. L’intervento fu molto invasivo perché Giovanni perse una parte del cervello e l’occhio destro, rimase in coma tre mesi, poi mentre si stava pian piano riprendendo un brutto male lo fece soffrire per anno e mezzo e nel 2000 finirono le sue pene.
Io penso che ora lui stia cercando nuovi orizzonti. Quando era in vita, mi diceva che il suo corpo sarebbe rimasto sulla terra, ma la sua anima avrebbe creato energia.
Lettera di Giovanni Ballotta Cesaro alla Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Rovigo.
Lima, 13 luglio 1990
All’attenzione del signor Presidente
Dott. Archimede Zambon
Solo ieri ho ricevuto il 2-3 di Polesani nel Mondo e mi sono emozionato leggendo la pubblicazione del bando di concorso per i Polesani che hanno onorato la provincia di Rovigo nel mondo. È scaduto il 31 marzo 1990, cioè sono fuori data, però la presente potrà servire per il concorso del prossimo anno e in ogni caso mi sentirò soddisfatto se potrò far conoscere ai miei paesani che noi, gli emigranti della mia epoca, abbiamo rinunciato al nostro spazio vitale in Italia, causa la depressione del dopoguerra, dopo averla subita; nel mio caso, ero anche un ferito di guerra, con sei mesi trascorsi nell’ospedale di Rovigo e altri dodici in quello di Sant’Orsola di Bologna, a causa di una bomba incendiaria.
Noi emigranti cerchiamo occupazione e lavoro in terra straniera, fuori dall’amata patria, lontano dalla terra natale e dagli affetti familiari, sempre limitati ed emarginati come stranieri e, per l’instabilità politica del paese che ci accoglie, a volte anche espropriati dei nostri beni.
Grazie a Dio siamo polesani e questo dono che ci viene dai nostri padri, con i caratteristici costumi e abitudini proprie della nostra regione, fa di noi dei cittadini abili e laboriosi, improvvisatori e creativi, umili e onesti, coraggiosi e perseveranti, nonché dei buoni cristiani, sempre utili per il paese che ci accoglie.
La mia è la storia o, come voi la chiamate, curriculum vitae, di tutti gli emigranti, dotati di caratteristiche che vorrei risaltare in questa sede, non per superbia, bensì per rendere omaggio ai miei padri defunti, ai miei fratelli e sorelle che si sono sempre preoccupati per noi, alla mia Villadose, Adria e Rovigo, in cui sono cresciuto e nel cui ambiente sociale mi sono forgiato come buon cittadino.
E infine, grazie all’aiuto dei familiari e parenti che hanno accumulato il gruzzoletto per il viaggio, si parte dal molo di Genova, con il singhiozzo in gola e le lacrime agli occhi, mentre la nave “Amerigo Vespucci” si allontana dai cari, che in realtà non rivedrò mai più. America, a lavorare, a risparmiare e ritornerò presto; ciao papà, ciao mamma, e ancora ciao papà, ciao mamma. La tua terra che si allontana e infine uno resta solo con il suo futuro, davanti un mare infinito, una valigia con il minimo necessario, 100 dollari in tasca e il bagaglio della sua razza, della sua origine polesana, la forza e la decisione nei propri propositi, l’innata predisposizione all’obbedienza, al dovere, a compiere sempre il maggior sforzo per il bene del prossimo, a progredire, a vincere con onore, che i Tuoi ti guardano e si aspettano da te il successo degno di ogni cittadino di una patria grande.
Questa è la mia storia: Giovanni Ballotta Cesaro, nato a Villadose (RO) il 13 agosto 1932, ragioniere, emigrato in Perù nel 1956, e mio fratello, Claudio Ballotta Cesaro, nato a Villadose (RO) l’11 gennaio 1929, maestro di scuola, emigrato in Canada nel 1955.
Sono stato assunto dalla Co. S.A.I.P.A.I., Società Italo-Peruviana Agricola Industriale, di Tingo Maria, che occupava circa cinquanta famiglie italiane, ex colonie africane, in una concessione di 15mila ettari di terreno nella selva amazzonica, con un investimento di circa 3 milioni di dollari di quell’epoca, dedicati con altri 500 nativi all’agricoltura, allevamento di bestiame, coltivazioni di caffè, tè, gomma, estrazione di legnami, con installazione di una strada ferrata di 50 km, teleferiche sopra i fiumi, scuole, ambulatori medici, mercato, ecc. Insomma, una piccola città di colonizzatori italiani all’interno della selva amazzonica.
Nel 1960, con progressive invasioni di nativi, espressamente trasportati e raggruppati lì, diretti politicamente da nascenti movimenti politici di sinistra, si è perduto tutto, fino a che abbiamo dovuto abbandonare l’impresa. L’investimento era proprietà del caro e sempre ricordato On. Ing. Scarpari, di Adria, proprietario a quell’epoca anche degli zuccherifici di Cavarzere. Oggigiorno la zona è l’impero della coltivazione della coca e dei narcotrafficanti che invadono e distruggono il mondo via Colombia, mentre grazie a lavoro e capitali italiani, oggi potrebbe essere una grande città agricola e industriale.
Nel 1960 mi sono stabilito nel Callao, primo porto del Perù. Ero senza lavoro per la mia professione, così mi sono imbarcato su un peschereccio, come pescatore. Il pesce abbondava e così ho deciso di investire i miei risparmi in una piccola barca artigianale dedita alla pesca. Io stesso riparavo la mia barca e lo facevo talmente bene, grazie a quanto avevo appreso nella colonia italiana di Tingo Maria, che altri mi richiedevano questo servizio. Un po’ alla volta sono cresciuto come armatore, fino ad ottenere tre pescherecci.
Nel 1961 ho chiamato mio fratello Claudio dal Canada, dove lavorava come saldatore in un accampamento nella baia di Hudson, a 40 gradi sotto zero. Insieme abbiamo fondato la Co. Cantieri San Marco, in ricordo del santo di Venezia, dedicandoci alla costruzione e riparazione di piccole barche da pesca. Grazie alla perseveranza, serietà, prestigio e grande volontà di lavoro, in poco tempo un umile maestro di scuola e un semplice ragioniere, provinciali, che conoscevano solo Villadose, Adria e Rovigo e che non avevano mai visto il mare, erano i più grandi costruttori di barche di legno del Perù. Più di 120 barche in sette anni, con una capacità netta di carico dalle 40 alle 350 tonnellate di pesce ad uso industriale (farina di pesce). Già nel 1965 sul lavoro avevo perso il metacarpo e le falangi di quattro dita della mano destra e mi è rimasto solo il pollice.
Nel 1967 abbiamo fondato la Co. Maestranza y Astilleros Delta, ampliando l’attività con barche in vetroresina e facendo partecipare al capitale sociale un impiegato, il signor Jesus Gurrea Fruns, per meriti di lavoro. Cinque anni dopo eravamo i costruttori dei pescherecci in fibra di vetro più grandi del mondo.
Giorni fa vedevo per televisione come grande cosa, che i tedeschi, nella ricerca e applicazione di nuovi materiali per uso navale, hanno fabbricato barche di 16 metri di lunghezza e 20 tonnellate di capacità, in fibra di vetro, per i mari del nord. Le nostre barche “polesane” sono di 30 metri di lunghezza e 350 tonnellate di capacità di carico. Abbiamo rivoluzionato la costruzione navale in Perù e nel mondo intero.
Come aneddoto, soprattutto perché possiate dare valore al maggior rischio che corre l’emigrante in un paese politicamente instabile, vi racconto il finale. Nel 1972, durante il governo dittatoriale del generale Velasco, di tendenza comunista, hanno nazionalizzato tutta l’industria ittica e sospeso le licenze di costruzione di pescherecci, considerando saturata la capacità di cattura della flotta. Abbiamo dovuto chiudere il cantiere navale.
Investivamo i nostri risparmi in un’azienda, diretta da due dei nostri fratelli, chiamati espressamente dall’Italia nell’anno 1963, Pietro e Umberto Ballotta, nati a Rovigo, di 21 e 23 anni rispettivamente. Il governo applicò la riforma agraria e ci lasciò in braghe di tela. Mio fratello Pietro tornò in Italia nel 1972.
Io e i miei fratelli Claudio e Umberto ci siamo dedicati allora alla fabbricazione artigianale di lance da diporto, sempre in fibra di vetro, e a lavori di legno.
Nel gennaio 1977 sono emigrato a Panama con la famiglia, per lavorare nel montaggio di un complesso peschereccio nel Rio Hato, a 500 metri dal Farallón, il fortino del generale Omar Torrico, presidente di Panama e promotore di questo investimento a beneficio della piccola cittadina di Rio Hato, che non aveva industrie. Omar, un grand’uomo, un uomo del popolo, vicino ai problemi sociali, del quale ho meritato apprezzamento e stima.
Nel maggio 1979 sono tornato in Perù, essendo terminata la dittatura del generale Velasco, per riunirmi con i miei fratelli. Abbiamo fondato una piccola fabbrica artigianale di conserve, farine e oli di pesce, la “Frutti di Mare”, che per la nostra origine dovrebbe chiamarsi “Frutti de l’Adese”, attività che svolgiamo ancora oggi, unitamente alla costruzione delle lance da diporto e ai lavori di legno.
Ad ogni modo, i nostri pescherecci polesani navigano ancora e pescano sui mari e oceani del mondo, rappresentando la genialità, la creatività, l’audacia, lo sforzo e il duro lavoro di umili e semplici emigrati polesani, avendo migliorato in modo superlativo le costruzioni navali tradizionali e avendo creato benessere, prestigio e ammirazione nel paese che ci ospita e nel mondo intero. Infatti, le nostre barche sono state inaugurate da ministri, abbiamo esportato i nostri pescherecci e la loro tecnologia a Panama, in Ecuador e a Cuba, insomma, siamo stati leader nella costruzione navale peschereccia in Perù e nel mondo intero e i nostri pescherecci in vetroresina sono ancora imbattuti a livello mondiale per quanto riguarda le dimensioni, la qualità, la capacità e l’autonomia.
Oggi io e mio fratello abbiamo l’amaro in bocca. Gli anni accumulati e la persistente crisi politico-sociale non ci consigliano di ricominciare, benché offerte e richieste non ci manchino. Ciò che ci interessa maggiormente non è il denaro, bensì la soddisfazione di avere colto e realizzato le opportunità che la vita ci ha offerto, a favore del progresso e del benessere della maggioranza, con l’iniziativa e la distinzione che caratterizzano i buoni polesani. Crediamo di aver mantenuto la promessa di quando siamo partiti di “vincere con onore”, abbiamo seminato il mare e gli oceani con le nostre opere, utili e profittevoli, lasciando al mondo un nuovo esempio di progresso nel campo della costruzione navale in vetroresina. Ci manca ora solo l’ultima parte della promessa che abbiamo fatto partendo, ovvero il ritornare; però temo che non ci sarebbero i miei genitori ad aspettarmi sul molo stavolta.
Sono pervaso dall’emozione e di seguito vi elenco gli allegati:
1-La più grande imbarcazione al mondo per la pesca del tonno, in fibra di vetro
2-Fotografie di barche costruite in serie, una al mese
3-Dimensioni delle barche costruite nel mondo in fibra di vetro
4-Processo e tecnologia moderna. Processo di costruzione, con un riconoscimento della Marina Peruviana e congratulazioni da parte di compagnie olandesi, inglesi e nazionali.
Contatto in Italia: Paola Ballotta Cesaro, via D. Strada 3, Rovigo.
Se credete che meritiamo anche solo una menzione per il nostro comportamento, attività e meriti svolti in terra straniera, desidero che sia nella persona dei miei cari fratelli, Paola, Pietro, Lauro e Fiorella, e dedicata ai miei genitori, Ottimo Ballotta e Maria Cesaro in Ballotta, e ne sarò estremamente felice, così come i miei fratelli Claudio e Umberto.
Per concludere la mia storia di emigrante, voglio risaltare la persona di mia moglie, Dorina Manzetto Giolo, di Adria, che è stata la piattaforma e l’essenza del mio essere per il mondo, sempre fiduciosa, fedele e paziente, nei buoni e cattivi momenti, e che mi ha riempito la vita di amore, pace e tranquillità. Devo tutto a lei.
In fede,
Giovanni Ballotta Cesaro
[1] Guidò il Perù dal 3 ottobre 1968 al 30 agosto 1975 con il titolo di “Presidente governo rivoluzionario”. http://it.wikipedia.org/wiki/Juan_Velasco_Alvarado
[2] Il Governo peruviano di Juan Velasco Alvarado dà un’importante svolta politica con la creazione di SINAMOS (Sistema Nacional de Apoyo a la Movilización Peruana), il cui obiettivo dichiarato consiste nel facilitare la partecipazione di tutti i cittadini peruviani al processo rivoluzionario. Velasco dichiara che non si tratta di un partito politico. Risulta evidente che gli obiettivi a breve termine di SINAMOS sono la difesa e il sostegno al processo rivoluzionario e il suo obiettivo a lungo termine consiste nel facilitare la nascita di un nuovo tipo di Stato. Di fatto sarà un organizzatore dei lavoratori, supervisore delle elezioni e creatore di sindacati. http://www.tesionline.it/news/cronologia.jsp?evid=2091
CLAUDIO BALLOTTA – Villadose – ROVIGO
Claudio racconta le sue vicissitudini con sorriso e una pacatezza. “Sono nato ad Adria nel dicembre del 1964. Da piccolo mi ricordo che il nonno Arnaldo mi portava in bicicletta con lui. Mi sentivo al sicuro, tranquillo, era veramente piacevole. Giocavo sul cortile di casa. Tutto quello che trovavo, lo utilizzavo come giocattolo, una pietra o un pezzetto di legno.
A un certo punto mi sono ritrovato in Perù. Avevo due anni e mezzo. I primi ricordi del Perù sono della scuola a Lima. A Chama, era un rione rurale, c’erano molte aziende agricole, ora è tutto cemento. Quando ero a scuola, parlavo spesso delle mie avventure con il nonno e mi rendevo sempre più conto che una parte della mia vita era rimasta in Italia. Comunque la famiglia in Perù era unita, mi ricordo che mangiavamo sempre insieme. Penso che nella famiglia di un emigrante si cerchi di mantenere più possibile l’unità familiare. I legami sono più stretti. Quando ero piccolo, mio padre mi raccontava che lui da adolescente era appassionatissimo di pugilato e andava a disputare degli incontri di nascosto del nonno che non voleva. E quando arrivava a casa tutto con il volto massacrato dai pugni, il padre gliene dava altrettante perché aveva disobbedito. Mi ha raccontato anche che durante la guerra ebbe un incidente con una bomba si ferì egli americani lo curarono. Tutto quello che mi raccontò mio padre influì sulla mia vita.
Quando sono arrivato in Perù, cercavamo di tagliare i ponti con l’Italia, perché il ricordo della patria procurava troppa sofferenza. I parenti della mamma, Dorina, scrivevano continuamente delle lettere, mandavano foto ma diventava sempre più difficile perché oramai da noi in casa si parlava spagnolo.
Continuai gli studi fino alla laurea e trovai lavoro all’IBM come analista programmatore e nel frattempo mio fratello Marco era a Boston che frequentava un Master in Business Administration. Negli anni ’90 proposi a mia madre di andare a trovare mio fratello a Boston e poi viaggiare in Italia per far visita ai parenti. All’inizio io ero un po’ titubante, non sapevo come mi avrebbero accolto i parenti. Con mia grande gioia, quando arrivammo ad Adria, i parenti mi accolsero come se fossi sempre stato con loro, come se mi avessero conosciuto da sempre. La mamma ad Adria aveva cinque fratelli che ci accolsero a braccia aperte. Fu una sorpresa molto toccante . sentii di avere una parte di vita che apparteneva al Veneto. Uno dei miei zii m’informò che c’era la possibilità di una borsa d studio al Politecnico di Milano, un master in ingegneria gestionale. Ero appena stato negli Stati Uniti, ma lì mi sembrava tutto troppo grande, invece in Italia, sono rimasto impressionato dalla cura per il particolare, per il dettaglio, per la raffinatezza, il tutto sembra fatto a misura d’uomo. Ho avuto subito l’impressione di essere al posto giusto e che mi sarebbe piaciuto tanto vivere in Italia. Terminato il nostro soggiorno dai parenti, mamma ed io ritornammo in Perù, ma io avevo in mente di ritornare in Italia al più presto. Dopo poco tempo mi chiamarono dal Politecnico per sostenere l’esame d’ammissione, lo superai, era una borsa di studio. Così nel ‘93 ritornai in Italia per studiare al Politecnico. Fu un’esperienza meravigliosa. Eravamo una trentina di partecipanti al master. Feci amicizia con uno studente di Treviso, Lucio Doma. Un giorno decisi di andare a trovarlo a casa. Mentre stavamo conversando, la mamma di Lucio mi disse che aveva una cugina emigrata a Lima. Io risposi che avevo una zia a Treviso sposata con Bruno Cesaro e a quel punto mi chiese: “Come si chiama tua zia?”, risposi: “Eleonora”, e lei chiese ancora: “E tua cugina che emigrò in Perù, come si chiama?”, “Vilma Piovesan”, e lei a quel punto incredula e stupita disse: “Ma è sua sorella!”. Con mio immenso piacere scoprii quindi che ero diventato parente del mio caro amico Lucio!
Concluso il corso di studi del master decisi di rimanere a lavorare a Milano come consulente aziendale. Ero molto contento perché con il mio lavoro avevo l’opportunità di viaggiare, visitai Torino, Roma, Cagliari e altre splendide città. Il mio obiettivo era di trovare un buon lavoro in Italia e far ritornare anche i miei genitori. Marco, mio fratello, mi comunicò che mio padre aveva avuto un brutto incidente. Io non partii subito, ma quando mi dissero che la situazione era peggiorata ritornai in Perù soprattutto per dare sostegno morale ai miei familiari. Era il 1995. Quando ero nell’aereo, durante il viaggio di ritorno, mi resi conto che stavo per chiudere il capitolo Italia della mia vita. Infatti, nel ’97 mi sposai con una splendida ragazza peruviana.
Ora la mia vita è qui in Perù, ho tre meravigliose figlie: Daniela, Lorena e Raffaella. Comunque non faccio dimenticare loro le origini, le radici italiane, venete, e di fatti frequentano la scuola al collegio italiano ANTONIO RAIMONDI. Cerco inoltre di mantenere i contatti con l’Italia perché ho piacere che le mie figlie continuino a sentire la parte di sangue Veneto che scorre nelle loro vene.
Marco Ballotta – Villadose – ROVIGO
Con uno splendido sorriso e un modo di fare molto affabile e disponibile ci accoglie nella sua azienda. Marco Ballotta racconta entusiasta: “Sono nato a Lima nel maggio del 1963. A nove mesi sono andato in Italia perché mamma voleva partorire il suo secondogenito lì. Io sono stato battezzato come Marco Polo e mio fratello come Ottimo Claudio. Sono sorti dei problemi con i documenti quindi con il passare del tempo i miei genitori hanno deciso di togliere a me il Polo e a mio fratello l’Ottimo. Sono rimasto in Italia dai nove mesi, come ho detto prima, fino ai cinque anni. Ho frequentato l’asilo infantile ad Adria. Parlavo correttamente il dialetto e l’italiano. Poi ritornammo in Perù, ma quando finii l’università, mi sono laureato in ingegneria gestionale, a diciannove anni, volli ritornare in Italia per conoscerla meglio, e incontrare di nuovo i miei parenti che erano stati così cari con me da piccolo. Infatti, abbiamo sempre mantenuto i contati scrivendoci lettere che telefonandoci. Quando arrivai in Italia, cominciai a parlare italiano come se niente fosse, le parole mi uscivano da sole, dicevo delle parole che mi sembrava di non conoscere, perché in Perù parlavamo spagnolo. Fu una bellissima sorpresa scoprire che la lingua che avevo imparato da bambino era rimasta nascosta per tanti anni da qualche parte nella mia mente e nel mio cuore. Mi sentivo felice e confortato. Quando arrivai in Veneto, a diciannove anni, sono rimasto subito molto affascinato: la gente ben vestita, curata, belle persone mi sembrava un paradiso. Inoltre i miei parenti mi hanno fatto sentire benissimo. Mi ricordo una mattina mio zio mi portò la colazione a letto, c’era la spremuta di arance rosse, del pane fresco marmellata e un pezzo di formaggio, pensai, visto che era un rettangolo giallognolo. Ne tagliai un bel pezzo e lo misi in mezzo al panino. Cominciai a mangiare, era buonissimo, ne mangiai quasi mezzo chilo quando lo zio Franco disse un po’ stupito: “Mi sembra che tu stia mangiando un po’ troppo burro, guarda che è pesante!” Solo allora capii che non era formaggio tenero ma burro. In Perù non lo avevo mai visto, non c’era una pietanza così buona.
In Italia avrei dovuto fare il servizio militare altrimenti non potevo lavorare. A malincuore ascoltai il consiglio dei miei cugini che mi sconsigliarono di trascorrere un periodo così lungo sotto le armi. Ritornai quindi in Perù. Era 1988. Mi misi alla ricerca di un lavoro e mio padre mi propose di lavorare per lui visto che aveva un’azienda ben avviata di tonno in scatola e farina di pesce. Accettai e devo dire con sincerità che furono tre anni molto difficili. Innanzitutto perché il lavoro non mi piaceva e poi la convivenza aziendale con mio padre era particolare. Mi ricordo il primo giorno di lavoro. Mio padre entrò in camera mia alle quattro del mattino, accese la luce, tolse le coperte dal mio letto e mi urlò nelle orecchie: “Alzati pigro!”. Mi svegliai di soprassalto, sembrava un incubo, guardai la svegli e mi resi conto che erano le quattro del mattino e lo dissi a mio padre e lui rispose in modo autoritario: “Il padrone è il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene!”. Così mio padre andò in macchina, avviò il motore e schiacciava l’acceleratore mentre aspettava che mi preparassi, mentre ascoltava il notiziario del mattino, a tutto volume. Io vista la mala parata, mi alzai di corsa, indossai le prime cose che trovai, mi misi addosso la coperta perché faceva un freddo intenso e raggiunsi di corsa mio padre in auto. Partimmo e per tutto il tragitto dalla nostra casa all’azienda, circa trenta chilometri mi fece una predica immane dicendo che ero pigro, svogliato, che bisogna sacrificarsi per ottenere qualcosa nella vita, che lui aveva combattuto durante la guerra ed era stato ferito e non stava in casa a guardare la tv come facevo io! Quando arrivammo finalmente all’azienda, era uno stabilimento molto grande, con più di duecento dipendenti, ma vista l’ora non c’era anima viva in giro, tanto meno nella guardiola dell’ingresso. Così entrammo, io scesi e mio padre senza dirmi niente prese i due cani e li portò a fare un giro per l’azienda. Io aspettai, ma non mi disse niente e se ne andò. Io non sapevo cosa fare ma era talmente freddo che entrai in un ufficio. Chiaramente come ho detto prima, non c’era nessuno, era tutto vuoto. Tra l’altro c’era un odore insopportabile di pesce. Guardai il soffitto ed era pieno di mosche, e vidi alcune sedie. Presi due sedie, le unii e non sapendo cosa fare mi sdraiai, mi misi addosso la coperta che avevo portato da casa e mi assopii. Dopo qualche minuto mi svegliai dalle urla di mio padre che dicevano: “Ma guarda questo!” Sono proprio valsi i miei sforzi per mandarti all’università”. Allora io mi alzai dalle sedie e chiesi cosa dovevo fare, che mansioni avevo, che responsabilità mi avrebbe dato. Lui rispose: “Sei tu l’ingegnere, sei tu quello che è andato all’università, trovati qualcosa da fare!”. Allora ho cominciato a girare per l’azienda per capire cosa potevo fare. Mi guardavo attorno e nel frattempo erano arrivati gli operai, che quando mi vedevano cercavano di evitarmi. Anzi quando cercavo di avvicinarmi, gentilmente, mi facevano capire che disturbavo il loro lavoro.
La situazione non cambiò per circa venti giorni. Dopodiché presi coraggio e avevo studiato la catena di montaggio dissi agli operai che lavoravano in quel settore di cambiando l’ordine dei macchinari si sarebbe risparmiato tempo nella lavorazione. Erano titubanti, ma io m’imposi e così essendo il figlio del padrone lo fecero, mi ubbidirono. Mentre stavo guardando il frutto della mia decisione, arrivò mio padre e mentre cercavo di spiegargli la mia decisione, non mi lasciò aprire bocca e chiese agli operai chi aveva fatto i cambiamenti. Loro indicarono me. Lui mi guardò e con estrema disapprovazione me ne disse di tutti i colori e fece rimettere tutto come prima. Ero veramente abbattuto e pian piano, con la coda fra le gambe me ne ritornai in ufficio a far compagnia alle mosche. La storia andò avanti per quasi tre anni, non riuscivo a trovare qualcosa da fare che mi desse soddisfazione. E così me ne andai.
Andai a Boston per continuare a studiare e frequentai un master in Business and Administration e poi rimasi lì a lavorare come consulente in un’azienda. Tutto procedeva bene, quando una notte squillò il telefono e mia madre mi disse che mio padre aveva avuto un grave incidente. Dopo tre anni a Boston, la mattina stessa presi il primo aereo per Lima. Era il 1991.
Ritornai nell’azienda di mio padre. Questa volta però occupai il suo posto. In un batter d’occhio la mia vita cambiò radicalmente, da uomo d’affari a Boston allo stesso ufficio, con la stessa sedia e le stesse mosche di Lima. Dopo tre mesi, io e l’odore di pesce eravamo un tutt’uno. Rimasi nella conduzione dell’azienda per tre anni e poi decidemmo d’accordo con gli altri membri della famiglia di vendere. Così facemmo ma io non me la sentii più di abbandonare Lima dove avevo i miei genitori anziani e ammalati e decisi di aprire un’attività per conto mio. Pensai ai momenti più felici della mia vita e mi venne in mente subito l’Italia e così decisi di intraprendere un’attività dove fosse coinvolta. Conobbi Nicola Utili che aveva un’impresa metal meccanica molto grande e come hobby importava vino italiano. Diventammo amici e mi propose di aprire in società un’azienda d’importazione di vino dall’Italia. Accettai e iniziammo usando il suo marchio e così per un anno fino al ’96. Poi poiché l’attività mi appassionava parecchio, decisi di mettermi in proprio continuando con l’importazione di vini italiani. Il mio obiettivo era di diventare il principale, il più importante importatore di vini italiani in Perù. Ci misi tutto me stesso e il mio sogno si è avverato. Ci sono voluti quattro anni ma oggi siamo i maggiori importatori. A dire il vero, l’idea iniziale era quella di avere il vino delle più importanti regioni d’Italia e ci siamo concentrati in Toscana con il vino Castello Banfi, il Ruffino, poi in Piemonte con Batasiolo, in Tentino con il Mezzocorona. Per quanto riguarda il Veneto, dopo aver avuto alcuni marchi importanti, decisi di fare di più. Ho pensato di produrre un vino e dare un marchio mio personale. E così è nato MISTROSANTI che deriva dal soprannome della famiglia di mia mamma. Andai in Italia, visitai molte cantine, in Veneto, fino a quando incontrai Giovanni Caccaro a Camposanmartino in provincia di Padova, vicino ai colli Euganei. Cominciammo a conversare e capì che io volevo la produzione di un vino particolare che avrebbe dovuto incontrare i gusti dei peruviani: colore, sapore, morbidezza, acidità; lui essendo enologo dopo vari tentativi mi propose un buon vino rosso, bianco e anche il prosecco. Ora molto orgoglioso delle mie origini venete posso dire che il vino rosso Mistrosanti è il più venduto in tutto il Perù.
Ora che mio padre non c’è più devo dire che ho tratto molti insegnamenti da questa esperienza. Innanzitutto ora so che cos’è la pazienza, ho sviluppato la capacità di tirar fuori il meglio dalle persone, riesco a relazionarmi bene con gente di vari livelli sociali e culturali, uso molto l’umiltà e rispetto per tutto e per tutti, no faccio ma pesare di essere un ingegnere industriale con un’azienda che va bene. Infatti, posso dire con piacere che nella mia azienda si vive come in una famiglia. Tutti sappiamo, ed io per primo, che l’azienda va bene e progredisce grazie al lavoro di tutti e suoi addetti. Ricordo che mio padre mi ha sempre dato lo stipendio, anzi un buon stipendio per il mio “lavoro” nella sua azienda, per tutti i tre anni. Ogni tanto andavo alle riunioni con i proprietari delle banche, con i fornitori, con i clienti ma poi alla fine era sempre mio padre ad avere l’ultima parola, decideva come voleva lui.
Penso che quello fosse l’unico modo che conosceva per insegnarmi i valori importanti, basilari nella vita di ognuno. Farsi strada in maniera onesta rispettando tutto e tutti. Infatti, ora non mi lascio più impressionare da niente e da nessuno. Né dal ricco né dal povero, sono tutte e due persone rispettabili e ognuno dà alla società quello che può.
Ora posso dire di essere contento non solo per l’orgoglio dell’azienda, ma anche perché ho nel 2000 mi sono sposato con Ursula e ora abbiamo uno splendido bambino Gianluca Ballotta.
Tratto dal libro “Destinazione Perù” degli autori Flavia Colle e Aldo Rozzi Marin, pubblicazione promossa dalla Regione del Veneto, Assessorato Flussi Migratori e realizzata dall’Associazione Veneti nel Mondo (Camisano Vicentino (Vicenza), Tipografia Ga.Bo, Marzo 2010).